Il 10 giugno 1940 a Petrizzi
di Antonio Anzani
Lo ricordo, eccome lo ricordo quel pomeriggio del 10giugno 1940, anche se avevo solo sei anni appena compiuti.
C’era adunata generale – così si chiamavano allora le indizioni di assemblea popolare-non in piazza, come per solito avveniva, ma al Dopolavoro, in via Garibaldi: la radio del locale, ( dov’era allora, a Petrizzi, un impianto di amplificazione!) posta su un tavolinetto all’esterno, sotto le insegne del Campari e della China Pisanti.
Parlava il duce e tutti erano obbligati a sentirlo, in locali pubblici e rigorosamente in divisa.
Fu accesa la radio a tutto volume, si udì l’urlo della folla a Piazza Venezia, poi la voce del duce: “ La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori……. “ è la folla di Petrizzi si unì nell’urlo di approvazione e nell’applauso a quello di Piazza Venezia e a quella di tutte le piazze d’Italia.
Non ho più dimenticato quella voce tagliente, quelle frasi brevi ad applauso calcolato, prima che si diffondessero, anni dopo, i dischi incisi dei discorsi del duce. Nel frattempo ogni sera l’EIAR ( così si chiamava allora la RAI ) trasmetteva il bollettino, da ascoltare in piedi seguito dal “ commento ai fatti del giorno “ del giornalista di regime Mario Appelius.
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Sono passati 75 anni; i bambini di allora siamo persone anziane, i sopravvissuti. Della folla assiepata nella strettoia di via Garibaldi a Petrizzi moltissimi partirono per la guerra, parecchi non tornarono, altri patirono anni di prigionia, altri rimasero mutilati nel corpo; tutti nell’anima, specie quando si cominciò a capire che la guerra non andava bene e il motto “ vincere “ scritto a caratteri cubitali sui muri e in calce alle lettere di tutti gli uffici, divenne un meno sicuro “ vinceremo “ e perfino, mormorato sottovoce, “ basta con la guerra “, soprattutto quando cominciarono a farsi sentire la miseria, la fame, le penurie di ogni genere.
Al posto di quanto diceva Appelius ci pensava a demolirlo il professor Umberto Calosso da Radio Londra, ascoltata dai pochi possessori di apparecchi radio, a basso volume, perché ciò era proibito è punito come disfattismo.
Lo incontrai, Calosso, a Roma, nei primi anni 50, all’universita’, quando i neofascisti gli lanciavano contro uova marce e perfino aprirono in aula una scatola con un intero alveare.
Fascismo e antifascismo, a Petrizzi, era solo la contrapposizione di due famiglie di maggiorenti; nel 1923, però, avevano tutti aderito al fascismo, fondando due ben distinti fasci; quando nel 1925 Mussolini consolidò il potere, dispose che, in ogni comune, non ci fosse che un unico fascio e, qui, ( penso anche altrove ) la parte soccombente divenne antifascista; il libro “ Eia eia alalà “ Rizzoli 2014 di Giampaolo Pansa riporta situazioni analoghe nel Monferrato, molto lontano da qui;e con la differenza che li sparavano e uccidevano.
I fatti di Petrizzi li ho appreso da persone viventi e operanti in paese in quegli anni, oltre che dal possesso di una fotografia dei protagonisti, in gruppo con altri, tutti rigorosamente in camicia nera.
Ma esiste anche un riscontro scientifico in una pubblicazione documentata del professore Antonio Carvello dell’universita’di Catanzaro risalente agli anni 80 del novecento.
Di questi fatti, col passare degli anni, pochi si ricordano; e, del resto, cosa importerebbe?
Il 25 luglio 1943, tutti divennero tout-court, antifascisti: sì disfecero delle divise e delle patacche gettandole nel fiume che se le porto’ via, con le memorie: del bene e del male che quei vent’anni rappresentarono, degli eventi tragici che seguirono, degli odi profondi non ancora sopiti: tanto che il settantacinquesimo anniversario da cui tutto prese inizio è passato sotto silenzio o quasi, sovrastato dal settantesimo anniversario della liberazione.
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Ormai molti storici concordano che, prima dell’infausta alleanza con Hitler, il fascismo ebbe ampio consenso sia a livelli elevati ( solo circa trenta docenti universitari rifiutarono il giuramento richiesto a tutti i duemilacinquecento professori ); sia a livelli popolari: perfino la guerra in AOI ( Africa Orientale Italiana) diede a molta povera gente la ( allora ) mitica paga di 5 Lire al giorno, che valevano più della vita o della incolumità fisicamente!
Ricordo un mio modesto collaboratore, arruolatosi per tale motivo, che – raccontava – aveva subito acquistato al mercato delle schiave, per poche lire, una giovane donna indigena con la quale convisse mantenendola ma ricevendone ogni servizio ( “ mi lavava, mi stirava, mi cucinava e ……”); inneggiava perciò al duce, rammaricandosi, però, che dopo un paio d’anni, vietò agli italiani ogni contatto con le indigene, per cui gli fu giocoforza rivenderla al mercato, per qualche lira in più di quanto l’aveva pagata.
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Ai giovani che frequentano le scuole si danno cenni generici sul ventennio e non sempre con oggettività; il Paese non ha ancora metabolizzato il fascismo, non lo ha ancora storicizzato.
I giovani cantano le canzoni di oggi, spesso socialmente impegnate, ma non sempre belle musicalmente e quanto a contenuti, come erano “ La sagra di Giarabubu “ e l’indimenticabile “ Faccetta Nera” di quest’ultima fu autore un legionario, nostro conterraneo, ricevette in Africa una convocazione del duce a Roma.
Mi raccontò che era pieno di paura.
Invece il duce lo lodò per la bella canzone e lo nominò ipso facto docente al conservatorio di Santa Cecilia, da tromba solista in una banda di paese che era.
Alla caduta del fascismo lo epurarono ma fu prosciolto essendo la sua unica colpa avere scritto una bella canzone.
Fini’, è in tale veste lo conobbi, ispettore ministeriale per le materie musicali, mi regalò cinque lp di sue musiche, naturalmente per banda, eseguite dalle grandi bande militari.
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Tornando al 10 giugno 1940 a Petrizzi, donde eravamo partiti, ecco l’epilogo.
Per vent’anni i due protagonisti sì odiarono cordialmente e duellarono, -da signori quali erano entrambi, oltre che intelligenti colti e ottimi comunicatori- di fioretto non di sciabola, sicche’ ciascuno si sentisse solo “ touche’ “e non “ blesse’. “.
Negli anni successivi cambiarono gli antagonisti: ormai avanzava la Democrazia Cristiana, dalla quale i due erano parimenti lontani; uno, in loco, la lotto’ aspramente; l’altro a Catanzaro sembro’ perdere il gusto della lotta politica.
E poi, che gusto c’era a “ lottare “ fuori dalle mura di Petrizzi?
Antonio Anzani