Il foltissimo pubblico di alcune centinaia di amatori della buona musica
affluita da tutta la Calabria oltre ai moltissimi turisti da altre regioni che ha
trovato posto sia pure in piedi nello spazio del chiostro (e nei dintorni)
costruito cinquecento anni fa e più che sufficiente per i monaci che
abitavano il convento della Pietà di Petrizzi, si è minuto dopo minuto,
stupito di bellezze diverse.
Avevamo attraversato il vasto uliveto, con alcuni ulivi millenari, nel quale il
Convento è immerso: i monaci avevano scelto una profonda vallata per
erigere un edificio che, benché non grandissimo (metri 40 X 34) doveva
avere dimensioni ragguardevoli, a giudicare dal numero delle finestrelle
delle celle che si affacciano sul chiostro; dal torrione superstite dei quattro
diruti dal grande terremoto del 1783.
Il portone d’ingresso incastrato in un maestoso portale in granito è un altro
impatto con la bellezza.
Dal fondo degli stanzoni adiacenti giungeva l’accordo di strumenti: un
suono che non è cacofonico, ma rappresenta l’inizio della totale
immersione nell’armonia dei suoni.
Il complesso, appartenente alla Famiglia Corapi dal 1842 e ridotto dagli
eventi sismici allo stato di rudere (diamo a parte in un ampio stralcio del
capitolo “Il convento di S. Maria della Pietà” compreso nel nostro volume
“IL Fiore di Pietra”, ed. Rubettino, 1982, dovuto al padre dell’attuale
proprietaria S.E. Luigi Corapi, che mi onorò della sua amicizia) è stato
splendidamente restaurato dalla proprietaria architetto M.Luisa Corapi e
al marito architetto Bruno Fabrizi, che vi hanno profuso le loro
professionalità e il loro affetto per un luogo della propria famiglia: un’altra
vittoria della bellezza.
In questo luogo eccezionale, anzi unico, sito nel territorio d Petrizzi ma
poco noto agli stessi petrizzesi, ci è stato dato di ospitare l’annuale
concerto che il M° Jun Kanno – al quale su nostro input, l’Amministrazione
Comunale, con voto unanime, ha conferito la cittadinanza onoraria per gli
alti meriti artistici e l’amore ultratrentennale per il nostro paesino – offre
al “Fiore di Pietra”.
Debbo dire che gli innumerevoli nostri concerti, in ben 42 anni di attività,
mai avevano avuto una sede più degna e più bella.
E’ proprio vero che si fa di necessità virtù: i numerosissimi edifici e siti
all’aperto di proprietà comunale non hanno ancora i requisiti di agibilità
che oggi si richiedono; le chiese ci hanno espulso, compreso il nostro
pianoforte, forse perché Ordinari Diocesani musicofobi e presbiteri ligi
“perinde ac cadaver” ritengono la musica “instrumentum diaboli” e
preferiscono “gli orridi schitarramenti”, come li ha definiti il M° Riccardo
Muti dinnanzi al folto pubblico della martoriata Norcia, dopo una splendida
esecuzione del verdiano Machbet; ha dichiarato che al proprio funerale
gradirebbe un coro polifonico di Pier Luigi da Palestrina (Io mi
accontenterei di una messa in latino con canto gregoriano).
Tutto, comunque è strumento della provvidenza: la costanza di pochi nostri
soci ha reperito e allestito il chiostro del Monastero di S. Maria della Pietà
quale splendida unica location per un concerto eccezionale, dove la mistica
solennità del canto gregoriano è risuonato per secoli e ne ha impregnato i
muri.
Con il M° Kanno, si è esibito un altro concertista di remote origini petrizzesi
(il suo bisnonno era di Petrizzi) benché mai prima venuto in Calabria dal
nord dove vive ed opera: il M° Marcello Fera, violinista, e compositore;
entrambi coadiuvati da un altro giovane petrizzese, Domenico Cossari, in
pochissimi anni messosi in grado di eseguire, e bene, un pezzo di
Rachmaninoff: “Momento musicale” op. 16 n. 4., al pianoforte.
Il concerto, è stato presentato con misura, competenza e stile da Bruna
Rocca; del mio discorso introduttivo non parlo per motivi di buon gusto.
La prima parte è dedicata a Mozart: La Sonata per pianoforte solo in Do
Maggiore KV330 ci ha confermato l’altissima capacità interpretativa del M°
Kanno che sa unire ad una scrupolosa lettura “filologica” della partitura,
una ricchezza rarissima di sfumature del suono quasi ad aprire
all’ascoltatore l’animo dell’Autore.
Ancor più, se possibile, ciò è avvenuto con il secondo brano mozartiano, la
Sonata per violino e pianoforte in Mi bemolle Maggiore KV481 in cui Kanno
si è esibito in duo con Fera, dopo solo una prova assieme: non par vero, ma
sembrava che i due suonassero insieme da anni.
Bravi, dunque entrambi, per questa esecuzione da manuale. Miracolo che
si è ripetuto per il terzo brano in programma, la Sonatina in Re maggiore
D384 di Schubert, per violino e pianoforte, resa con la levità tutta viennese
di Franz e delle “Schubertiadi” viennesi.
Il clima musicale è del tutto diverso, ma l’intesa tra i due interpreti identica,
nel brano stravinskyiano presentato “Chanson Russe” e nel brano di
Marcello Fera “The hope tonight”.
Il resto del concerto ha avuto Fera come esecutore, da solista, di proprie
musiche.
Qui onestà intellettuale vuole che io dichiari la mia incapacità di
comprendere la musica dei compositori contemporanei da Busoni (parlo di
un nome illustre) in poi.
Io credo – sicuramente sbagliando- che gli ultimi tre compositori che,
innovando, non hanno obliato il glorioso passato, sono Stravinsky nel suo
insieme, Carl Orff, l’autore degli splendidi “Carmina Burana”, e Strauss
della “Salomè”: alla mia età si cammina lento pede, non si corre.
La stessa onestà intellettuale mi impone, però, di ricordare, a me stesso e
agli altri, che perfino il grande Joan Sebastian Bach dovette attendere una
settantina di anni e la mediazione di Mendelson che lo trasse dall’oblio
attraverso la “(ri)scoperta” della “Passione secondo S. Matteo”.
Voglio dire che tutti i compositori furono degli innovatori e che non sempre
l’innovazione è capita ed accettata nel suo nascere, ma più in là.
Io non mi pronuncio, dunque, su queste composizioni, fra l’altro di alto
pregio interpretativo, anche perché alla manifestazione mi aveva
accompagnato, a sua richiesta, la mia nipotina di 9 anni che assisteva al suo
primo concerto e ha tutta la vita davanti per apprezzare anche ciò che al
nonno, ratione aetatis, può apparire ostico; anche per questo Ludovica mi
prolunga la vita di cento anni venturi nei quali vivrò nella sua memoria e
nel suo affetto, nell’inclinazione al mito della bellezza.
E’ stato autorevolmente detto che “la bellezza salverà il mondo”. Aggiungo:
se sapremo gustarla, introitarla, farla nostra, rigettando il brutto ed il
cattivo (ricordo che per i Greci kalòs kaì agatòs erano una endiade
inscindibile), vivere in essa e per essa, amarla.
Antonio Anzani